FAMIGLIA FRANCESCANA

  San Francesco  

Diacono e fondatore dell’ordine che da lui poi prese il nome, venerato come Santo dalla Chiesa cattolica Francesco nacque nel 1182 da Pietro Bernardone dei Moriconi e dalla nobile Pica Bourlemont, di origine francese, in una famiglia della borghesia emergente della città di Assisi, che, grazie all’attività di commercio in Provenza (Francia), aveva raggiunto ricchezza e benessere. Sua madre lo fece battezzare con il nome di Giovanni (dal nome dell’apostolo Giovanni) nella chiesa costruita in onore del patrono della città, il vescovo e martire Rufino, cattedrale dal 1036. Tuttavia il padre decise di cambiargli il nome in Francesco, insolito per quel tempo, in onore della Francia che aveva fatto la sua fortuna.

La sua casa, situata al centro della città, era provvista di un fondaco utilizzato come negozio e magazzino per lo stoccaggio e l’esposizione di quelle stoffe che il mercante si procurava con i suoi frequenti viaggi in Provenza. Il padre Pietro, vendeva la sua pregiata merce, in tutto il territorio del Ducato di Spoleto in cui all’epoca rientrava anche la città di Assisi.

Le varie agiografie del santo non parlano molto della sua infanzia e della sua giovinezza: è comunque ragionevole ritenere che egli fosse stato indirizzato dal padre a prendere il suo posto negli affari della famiglia.

Dopo la scuola presso i canonici della cattedrale, che si teneva nella chiesa di San Giorgio (dove, a partire dal 1257, venne costruita l’attuale basilica di Santa Chiara), a 14 anni Francesco si dedicò a pieno titolo all’attività del commercio. Egli trascorreva la sua giovinezza tra le liete brigate degli aristocratici assisani e la cura degli affari paterni riguardo l’attività del commercio dei tessuti.

Si ha memoria di una guerra che nel 1154 contrappose Assisi a Perugia. Tra le due città esisteva una rivalità irriducibile, che si protrasse per secoli. L’odio aumentò con il fatto che Perugia si schierò con i guelfi, mentre Assisi parteggiò per la fazione ghibellina. Non fu una scelta felice quella degli assisani in quanto nel 1202 subirono una cocente sconfitta a Collestrada, vicino Perugia. Anche Francesco, come gli altri giovani, partecipò al conflitto; venne catturato e rinchiuso in carcere. L’esperienza della guerra e della prigionia lo sconvolse a tal punto da indurlo ad un totale ripensamento della sua vita: da lì iniziò un cammino di conversione, che col tempo lo portò «a vivere nella gioia di poter custodire Gesù Cristo nell’intimità del cuore».

La guerra terminò nel 1203 e Francesco, gravemente malato, dopo un anno di prigionia ottenne la libertà dietro il pagamento di un riscatto, a cui provvide il padre. Tornato a casa, recuperò gradatamente la salute trascorrendo molte ore tra i possedimenti del padre. Secondo Tommaso da Celano furono questi luoghi appartati che contribuirono a risvegliare in lui un assoluto e totale amore per la natura, che vedeva come opera mirabile di Dio.

Da un punto di vista storico le circostanze della conversione di san Francesco non sono state chiarite e si hanno notizie solo attraverso le agiografie. Pare che abbia giocato un ruolo la sua volontà frustrata di farsi cavaliere e di partire per la crociata, ma soprattutto un crescente senso di compassione che gli ispiravano i deboli, i reietti, gli ammalati, gli emarginati: questa compassione si sarebbe trasformata poi in una vera e propria “febbre d’amore” verso il prossimo.

Nel 1203-1204 Francesco pensò di partecipare alla Crociata e quindi provò a raggiungere a Lecce la corte di Gualtieri III di Brienne, per poi muovere con gli altri cavalieri alla volta di Gerusalemme. Partecipare come cavaliere ad una crociata era a quel tempo considerato uno dei massimi onori per i cristiani d’Occidente. Tuttavia, giunto a Spoleto, si ammalò nuovamente ed ebbe un profondo ravvedimento. Avrebbe raccontato in seguito di essere stato persuaso da due rivelazioni notturne: nella prima egli scorse un castello pieno d’armi ed udì una voce promettergli che tutto quello sarebbe stato suo. Nella seconda sentì nuovamente la stessa voce chiedergli se gli fosse stato «più utile seguire il servo o il padrone»: alla risposta: «Il padrone», la voce rispose:

« Allora perché hai abbandonato il padrone, per seguire il servo? »

« ciò che mi sembrava amaro, mi fu cambiato in dolcezza d’anima e di corpo »

(dal Testamento di san Francesco, 1226)

« non sopportò indugi o esitazioni, non aspettò né fece parole; ma immediatamente, depose tutti i vestiti e li restituì al padre […] e si denudò totalmente davanti a tutti dicendo al padre: “Finora ho chiamato te, mio padre sulla terra; d’ora in poi posso dire con tutta sicurezza: Padre nostro che sei nei cieli, perché in lui ho riposto ogni mio tesoro e ho collocato tutta la mia fiducia e la mia speranza”. »

« Laudate et benedicite mi Signore,

et rengratiatelo et serviatelo cum grande humilitate. »

(Cantico delle creature)

Il francescanesimo si inserisce in quel vasto movimento pauperistico del XIII secolo, in uno spirito di riforma volto contro la corruzione dei costumi degli ecclesiastici del tempo, troppo coinvolti negli interessi materiali e politici, nella sanguinosa Lotta per le investiture. A questo si deve aggiungere la fioritura del comune: la nascita delle ricche città stato, se da una parte arricchì una parte del popolo, determinò la formazione di quei ricchi ceti mercantili, il cosiddetto popolo grasso, che acquistava potere a scapito della vecchia nobiltà feudale, facendo della vita metropolitana il centro della civiltà, pur lasciandovi dentro larghissime fette del ceto contadino più indigente. Disuguaglianza sociale feroce, ma anche crisi dell’assetto sociale medievale che dovette coinvolgere Francesco in prima persona mentre esercitava la professione di mercante.

“Povertà”, “obbedienza” e “castità” sono aspetti fondamentali della vita di Francesco e dei suoi discepoli. Dopo un primo periodo passato in solitudine, Francesco iniziò a vivere la propria vocazione insieme a dei compagni che volevano imitare il suo esempio. L’umiltà e l’ascetismo al quale si accompagnò l’opera del santo gli valse il nome di Imitator Christi (“Imitatore di Cristo”): da qui inizia l’esperienza della “fraternità”, nella quale ciascun membro è dunque un imitator Francisci (“Imitatore di Francesco”), e dunque un imitator Christi. Secondo la regola dettata da Francesco, la vita comunitaria deve cercare di conformarsi a questi principi:

Fraternità: i frati non devono vivere soli, ma devono prendersi cura dei propri fratelli (e in generale di tutti) con amore e dedizione. La stessa cura si estende incondizionatamente non solo alle creature umane, ma a tutto il creato in quanto opera di Dio e dunque sacro, vivendo in questo modo la fraternità universale.

Umiltà: porsi al di sotto di tutto e di tutti, al servizio dell’ultimo per essere davvero al servizio di Dio, liberarsi dai desideri terreni che allontanano l’uomo dal bene e dalla giustizia.

Povertà: rinuncia a possedere qualsiasi bene condividendo tutto ciò che ci è dato con tutti i fratelli, partendo dai più bisognosi.

Alla preghiera e alla meditazione, la Regola francescana aggiunge lo “spirito missionario”, in conformità ai precetti evangelici, assumendo una condotta completamente diversa rispetto alla norma seguita fino ad allora. È chiaro come a San Francesco interessassero soprattutto i ceti sociali più deboli, tendesse con amore fraterno verso quel “prossimo” spesso respinto e disprezzato dalla società, cioè verso il povero, il malato, il perdente, l’ultimo.

Francesco vuole essere il «minore tra i minori» (umile tra gli umili). Si sostiene che egli applicò ai compagni l’appellativo minores, dato in spregio ai popolani dai ricchi, perché lui stesso voleva incarnare la figura di “uomo del popolo”. Assisi e Santa Maria degli Angeli furono e sono tuttora il cuore pulsante da cui parte e a cui ritorna l’attività missionaria di questo nuovo Ordine dei minori, come da allora in poi furono chiamati tutti coloro che seguirono (e che seguono) il santo fondatore assisano. In questo modo, lo spirito di condivisione è esempio concreto della comunione dell’anima con Dio, Gesù il Cristo, testimonianza di fede e di amore cristiano.

A imitazione dei poveri e dei mendicanti, è l’aspetto itinerante dei francescani, secondo il principio di portare il proprio sostegno materiale e spirituale al prossimo andandogli incontro là dove egli si trova: applicando questa regola alla prima persona Francesco visse e scontò un incessante vagare, portandosi fino ai confini dell’Europa, sostentandosi del frutto del lavoro che gli veniva offerto per strada e dove questo non fosse possibile, attraverso l’elemosina.

Francesco rinunciò al proprio progetto e tornò ad Assisi. Da allora egli non fu più lo stesso uomo. Si ritirava molto spesso in luoghi solitari a pregare.

Un giorno a Roma, dove venne mandato dal padre a vendere una partita di merce, non solo distribuì il denaro ricavato ai poveri, ma scambiò le sue vesti con un mendicante e si mise a chiedere l’elemosina davanti alla porta di San Pietro.

Anche il suo atteggiamento nei confronti delle altre persone mutò radicalmente: un giorno incontrò un lebbroso e, oltre a dargli l’elemosina, lo abbracciò e lo baciò. Come racconterà lo stesso Francesco, prima di quel giorno non poteva sopportare nemmeno la vista di un lebbroso: dopo questo episodio, scrisse che

Ma è nel 1205 che avvenne l’episodio più importante della sua conversione: mentre pregava nella chiesa di San Damiano, raccontò di aver sentito parlare il Crocifisso, che per tre volte gli disse: «Francesco, va’ e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina».

Dopo quell’episodio, le “stranezze” del giovane si fecero ancora più frequenti: Francesco fece incetta di stoffe nel negozio del padre e andò a Foligno a venderle, vendette anche il cavallo, tornò a casa a piedi e offrì il denaro ricavato al sacerdote di San Damiano perché riparasse quella chiesina. Pietro di Bernardone diventò furente; molti ad Assisi furono solidali con quel padre che vedeva tradite le proprie aspettative: Francesco nella sua eccessiva generosità poteva essere interpretato come uno che dava sintomi di squilibrio mentale e così sicuramente lo intese il padre.

Il padre cercò, all’inizio, di allontanare Francesco per nasconderlo alla gente. Poi, vista la sua incapacità di fronte all’irriducibile “testardaggine” del figlio, decise di denunciarlo ai consoli per vietarlo e privarlo, non tanto per il danno poco oneroso subito, quanto piuttosto con la segreta speranza che, sotto la pressione della punizione della condanna dalla città, il ragazzo cambiasse atteggiamento.

Il giovane, però, si appellò ad un’altra autorità: fece ricorso al vescovo. Il processo si svolse così nel mese di gennaio (o febbraio) del 1206, nel palazzo del vescovo; «tutta Assisi» fu presente al giudizio.

Francesco, non appena il padre finì di parlare, non sopportò indugi o esitazioni, non aspettò né fece parole; ma immediatamente, depose tutti i vestiti e li restituì al padre […] e si denudò totalmente davanti a tutti dicendo al padre: “Finora ho chiamato te, mio padre sulla terra; d’ora in poi posso dire con tutta sicurezza: Padre nostro che sei nei cieli, perché in lui ho riposto ogni mio tesoro e ho collocato tutta la mia fiducia e la mia speranza”.

Francesco diede così inizio ad un nuovo percorso di vita. Il vescovo Guido lo coprì pudicamente agli sguardi della folla (pur non comprendendo a pieno quel gesto plateale). Con quest’atto di manifesta protezione si volle leggere l’accoglienza di Francesco nella Chiesa.

Da uomo nuovo Francesco cominciò il suo viaggio: nell’inverno 1206 partì per Gubbio, dove il giovane aveva da sempre diversi amici, tra cui Federico Spadalonga che aveva condiviso con Francesco anche la prigionia nelle carceri di Perugia; Federico lo accolse benevolmente nella sua casa, lo sfamò e lo rivestì. Ospite degli Spadalonga, Francesco «amante di ogni forma di umiltà, si trasferì dopo pochi mesi presso i lebbrosi restando con loro e servendo a loro tutti con somma cura.» Si trattava del lebbrosario di Gubbio che era intitolato a san Lazzaro di Betania, e nel suo Testamento Francesco disse chiaramente che la vera svolta verso la piena conversione ebbe inizio per lui a Gubbio, quando si era accostato a queste persone bisognose. Francesco non vi ebbe mai una fissa dimora: solo sette anni più tardi (nel 1213) il beato Villano, Vescovo di Gubbio, già Abate benedettino dell’Abbazia di San Pietro, concesse ai frati di stabilire una loro sede nell’antica Santa Maria della Vittoria, che la tradizione indica come il luogo in cui Francesco ammansì il famoso lupo.

Arrivata l’estate e placatosi lo scandalo sollevato dalla rinuncia dei beni paterni, Francesco ritornò ad Assisi. Per un certo periodo se ne stette solo, impegnato a riparare alcune chiese in rovina, come quella di San Pietro (al tempo, fuori le mura), la Porziuncola a Santa Maria degli Angeli e San Damiano.

I primi anni della conversione furono caratterizzati dalla preghiera, dal servizio ai lebbrosi, dal lavoro manuale e dall’elemosina. Francesco scelse di vivere nella povertà volontaria, ispirandosi all’esempio di Cristo, lanciando un messaggio opposto alla società duecentesca dalle facili ricchezze. Francesco rinunciò alle attrattive mondane, vivendo gioiosamente come un ignorante, un “pazzo” ovvero un “giullare”, dimostrando come la sua obiezione ai valori fondanti della società di allora potesse generare una perfetta letizia. In questo senso il suo esempio aveva un che di sovversivo rispetto alla mentalità del tempo.

Il 24 febbraio 1208, giorno di san Mattia, dopo aver ascoltato il passo del Vangelo secondo Matteo nella chiesetta Porziuncola nella campagna di Assisi, Francesco sentì fermamente di dover portare la Parola di Dio per le strade del mondo. Iniziò così la sua predicazione, dapprima nei dintorni di Assisi. Ben presto altre persone si aggregarono a lui e, con le prime adesioni, si formò il primo nucleo della comunità di frati. Il primo di essi fu Bernardo di Quintavalle, suo amico d’infanzia. Tra gli altri si ricordano Pietro Cattani, Filippo Longo di Atri, frate Egidio, frate Leone, frate Masseo, frate Elia Bombarone, frate Ginepro. Insieme ai suoi compagni, Francesco iniziò a portare le sue predicazioni fuori dall’Umbria. Secondo le fonti del tempo, le sue sono prediche semplici e di grande presa: quando Francesco parla, riesce a conquistare gli ascoltatori. Nei Fioretti di San Francesco si narra ad esempio che a “Cannaia” ovvero Cannara (in alcune trascrizioni “Carnano”), gli abitanti rimangono affascinati dalle sue parole, a tal punto da suscitare una sorta di conversione di massa. È in questa circostanza che Francesco pensa alla creazione del Terz’Ordine oggi denominato Ordine Francescano Secolare. In alcune versioni più tardive dei Fioretti al posto di “Carnano” o “Cannaia” (ovvero Cannara) si legge “Savurniano” ma si tratta molto probabilmente di una trascrizione errata dettata da forme campanilistiche del tempo. Secondo un’interpretazione che associa la nascita del Terz’Ordine Francescano al miracolo del “silenzio delle rondini” si può desumere dagli scritti del primo biografo francescano, frate Tommaso da Celano, che la fondazione (o almeno la promessa) da parte di San Francesco di istituire il Terz’Ordine Francescano è stata fatta nel 1212 ad Alviano, un borgo tra Orte ed Orvieto, poco distante da Todi. La stessa esegesi è possibile farla nella “Legenda Maior” di San Bonaventura.

Nel 1209, quando Francesco ebbe raccolto intorno a sé dodici compagni, si recò a Roma per ottenere l’autorizzazione della regola di vita, per sé e per i suoi frati, da parte di papa Innocenzo III. Dopo alcune esitazioni iniziali, il Pontefice concesse a Francesco la propria approvazione orale per il suo «Ordo fratum minorum»: a differenza degli altri ordini pauperistici, Francesco non contestava l’autorità della Chiesa, e la considerava come “madre”, e le offriva sincera obbedienza. Francesco era la personalità ideale per Innocenzo, che poteva finalmente incanalare le inquietudini e il bisogno di partecipazione dei ceti più umili nel seno della Chiesa, senza porsi come antagonista ad essa scivolando nell’eresia.

Del testo presentato al Papa non c’ è rimasta traccia. Gli studiosi pensano, tuttavia, che esso consistesse principalmente in brani tratti dal Vangelo, che col passare degli anni, insieme ad alcune aggiunte, confluirono a formare la «Regola non bollata», che Francesco scrisse alla Porziuncola nel 1221.

Di ritorno da Roma, i frati si installarono in un “tugurio” presso Rivotorto, sulla strada verso Foligno, luogo scelto perché vicino ad un ospedale di lebbrosi. Tale posto tuttavia era umido e malsano, e i frati dovettero abbandonarlo l’anno successivo, stabilendosi presso la piccola badia di Santa Maria degli Angeli, sulla pianura del Tescio, in località Porziuncola. Abbandonata in mezzo al bosco di cerri, venne concessa a Francesco e ai suoi frati dall’Abate di San Benedetto del Subasio.Questa nuova «forma di vita» attirò anche le donne: la prima fu Chiara Scifi, figlia del nobile assisiate Favarone di Offreduccio. Nella notte della Domenica delle Palme del 1211 (o del 1212), a Santa Maria degli Angeli, chiese a Francesco di poter entrare a far parte del suo ordine, e quella stessa notte ricevette l’abito religioso dal santo. Francesco la sistemò per un po’ di tempo prima presso il monastero benedettino di Bastia Umbra, poi in quello di Assisi. In seguito, quando altre ragazze (fra cui anche la sorella di Chiara, Agnese) seguirono il suo esempio, presero dimora nella chiesetta di San Damiano e diedero inizio a quello che in futuro saranno le clarisse, in cui si distingueranno sante come Caterina da Bologna, Camilla da Varano, Eustochia da Messina. Negli stessi anni diede vita al convento di Montecasale, dove insediò una piccola comunità di seguaci e dove ripetutamente farà poi sosta nei suoi viaggi.

Col tempo la fama di Francesco crebbe enormemente e crebbe notevolmente anche la schiera dei frati francescani. Nel 1217 Francesco presiedette il primo dei capitoli generali dell’Ordine, che si tenne alla Porziuncola: questi sorsero con l’esigenza di impostare la vita comunitaria, di organizzare l’attività di preghiera, di rinsaldare l’unità interna ed esterna, di decidere nuove missioni, e si tenevano ogni due anni. Con il primo fu organizzata la grande espansione dell’ordine in Italia e furono inviate missioni in Germania, Francia e Spagna.

Nel 1219, si recò ad Ancona per imbarcarsi per l’Egitto e la Palestina, dove da due anni era in corso la quinta crociata.

Durante questo viaggio, in occasione dell’assedio crociato alla città egiziana di Damietta, insieme a frate Illuminato ottenne dal legato pontificio (il benedettino portoghese Pelagio Galvani, cardinale vescovo di Albano), il permesso di poter passare nel campo saraceno ed incontrare, disarmati, a loro rischio e responsabilità, lo stesso sultano ayyubide al-Malik al-Kāmil, nipote di Saladino. Lo scopo dell’incontro era quello di potergli predicare il vangelo, al fine di convertire il sultano e i suoi soldati, e quindi mettere fine alle ostilità.

L’interpretazione del rapporto tra Francesco e l’Islam, e le crociate non è facile ed è ancora oggetto di discussione in quanto c’è contrapposizione tra chi vede la sua azione come un sostegno alle crociate o, al contrario, come una loro sconfessione. La narrazione dell’incontro ci è pervenuta, oltre che tramite le opere di biografi francescani, anche attraverso altre testimonianze non tardive, sia cristiane sia arabe. La versione fornitaci da San Bonaventura cita maltrattamenti subiti ad opera dei soldati saraceni e la difesa, da parte di Francesco, dell’operato dei crociati e la giustificazione della guerra agli islamici infedeli. Nel racconto di Tommaso da Celano, Francesco suscitò profonda ammirazione nel sultano, che lo trattò con rispetto e gli offrì numerose ricchezze. Secondo la narrazione agiografica, Francesco subì anche la prova del fuoco, raffigurata in numerosi cicli dipinti.

Murale raffigurante san Francesco, ad Assisi

La pacifica rivoluzione che il nuovo Ordine stava compiendo cominciò ad essere palese a tutti. Iniziarono però anche i primi problemi: Francesco temeva che, ingrandendosi senza controllo, la fraternità dei Minori deviasse dai propositi iniziali. Per dare l’esempio e per potersi dedicare completamente alla sua missione, nel 1220 Francesco rinunciò al governo dell’Ordine in favore dell’amico e seguace Pietro Cattani, che però morì l’anno seguente. Al successivo Capitolo Generale (detto «delle Stuoie», giugno 1221) venne scelto come vicario frate Elia. Nel 1223, con la bolla «Solet annuere», papa Onorio III approvò definitivamente la «Regola seconda» (che rispetto alla prima è più corta e contiene meno citazioni evangeliche), che fu redatta con l’aiuto del cardinale Ugolino d’Ostia (il futuro papa Gregorio IX). La doppia stesura della regola a distanza ravvicinata testimonia un ripensamento a fronte di difficoltà nel progetto; Francesco, pur non condannando in sé né la ricchezza, né la sapienza, né il potere, si rendeva conto che i frati che liberamente avevano deciso di seguirlo e di seguire la sua regola di vita stavano diventando colti e accettavano doni e ricchezze (anche se formalmente questi erano incamerati dalla Santa Sede). Non è difficile immaginare che qualcuno, magari usando la scusa di poter meglio servire il prossimo, avesse richiesto più volte una limatura della regola del 1221 e alla fine Francesco cedette, pretendendo però questa volta una fedeltà assoluta, accettandola “senza commento”, cioè senza interpretazioni.

Durante la notte di Natale del 1223, a Greccio (sulla strada che da Stroncone prosegue verso il reatino), Francesco rievocò la nascita di Gesù, facendo una rappresentazione vivente di quell’evento. Secondo le agiografie, durante la Messa, il putto raffigurante il Bambinello avrebbe preso vita più volte tra le braccia di Francesco. Da questo episodio ebbe origine la tradizione del presepe.

Oltre alla vita attiva Francesco, forse ammalato, sentiva continuamente l’esigenza di ritirarsi in posti solitari per ritemprarsi e pregare (come, ad esempio, l’Eremo delle carceri di Assisi, sulle pendici del monte Subasio; l’Isola Maggiore sul lago Trasimeno; l’Eremo delle Celle a Cortona). Tali posti offrivano al frate il silenzio e la pace che gli consentivano una più intima preghiera.

Tra il 1224 e il 1226, ormai malato gravemente agli occhi, compose il Cantico delle creature.

Secondo le agiografie, il 14 settembre 1224, due anni prima della morte, mentre si trovava a pregare sul monte della Verna (luogo su cui in futuro sorgerà l’omonimo santuario), Francesco avrebbe visto un Serafino crocifisso. Al termine della visione gli sarebbero comparse le stigmate: «sulle mani e sui piedi presenta delle ferite e delle escrescenze carnose, che ricordano dei chiodi e dai quali sanguina spesso». Tali agiografie raccontano inoltre che sul fianco destro aveva una ferita, come quella di un colpo di lancia. Fino alla sua morte, comunque, Francesco cercò sempre di tenere nascoste queste sue ferite.

Nell’iconografia tradizionale successiva alla sua morte, Francesco è stato sempre raffigurato con i segni delle stigmate. Per questa caratteristica Francesco è stato definito anche «alter Christus». La condivisione fisica delle pene di Cristo offriva un nuovo volto al cristianesimo, partecipe non più solo del trionfo, simboleggiato dal Cristo in gloria.

Negli anni seguenti Francesco fu sempre più segnato da molte malattie (soffriva infatti di disturbi al fegato oltre che alla vista). Varie volte gli furono tentati degli interventi medici per lenirgli le sofferenze, ma inutilmente. Nel giugno 1226, mentre si trovava alle Celle di Cortona, dopo una notte molto tormentata dettò il “Testamento”, che vorrebbe fosse sempre legato alla “Regola”, in cui esortava l’ordine a non allontanarsi dallo spirito originario.

Nel 1226 si trovava a Bagnara, presso Nocera Umbra; egli però chiese ed ottenne di poter tornare a morire nel suo “luogo santo” preferito: la Porziuncola. Qui la morte lo colse la sera del 3 ottobre.

Il suo corpo, dopo aver attraversato Assisi ed essere stato portato perfino in San Damiano, per essere mostrato un’ultima volta a Chiara ed alle sue consorelle, venne sepolto nella chiesa di San Giorgio. Da qui la sua salma venne trasferita nell’attuale basilica nel 1230 (quattro anni dopo la sua morte, due anni dopo la canonizzazione).

Fonte: Wikipedia